Il patto di non concorrenza
All’interno del nostro ordinamento la disciplina relativa al patto di non concorrenza è contenuta negli artt. 2125 e 2596 c.c.
Il patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c.
Giova premettere che, ai sensi dell’art. 2105 c.c., “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.
Nel corso del rapporto di lavoro subordinato, dunque, sussiste in capo al lavoratore un dovere di fedeltà che si concretizza nell’osservanza del divieto di concorrenza con le attività svolte dal datore e nell’obbligo di riservatezza delle informazioni relative all’impresa.
In caso di violazione del suddetto dovere, il prestatore potrà incorrere in una forma di responsabilità disciplinare ed essere chiamato a rispondere per il risarcimento dei danni subiti dal datore.
Sulla scorta di quanto disposto all’interno dell’art. 2105 c.c., l’art. 2125 c.c. disciplina, più nello specifico, il patto di non concorrenza che può essere incluso nel contratto di lavoro subordinato oppure in un accordo autonomo stipulato a seguito della cessazione del rapporto di lavoro.
In particolare, tale articolo dispone che “il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.
La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata”.
Ratio della norma è consentire al datore di lavoro di tutelarsi per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro da eventuali condotte concorrenziali dell’ex dipendente che passi al servizio di un’altra impresa operante nel medesimo settore produttivo o commerciale della precedente.
Il patto di non concorrenza ha natura di contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive. Infatti, attraverso questo, da un lato, il datore di lavoro si obbliga a versare un corrispettivo in denaro o in altra natura al lavoratore, dall’altro, il lavoratore si astiene dallo svolgimento di qualsivoglia attività che possa risultare in concorrenza con quella del datore per il periodo successivo alla conclusione del rapporto di lavoro.
Occorre specificare che è essenziale che l’oggetto del patto di non concorrenza sia circoscritto per evitare che la libera iniziativa economica del lavoratore, riconosciuta dall’art. 41 della Carta costituzionale italiana, venga del tutto limitata. A tal proposito la Corte di Cassazione (Cass. n. 13283/2003) ha statuito che “il patto di non concorrenza è nullo quando, per ampiezza, è idoneo a comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore, limitandone ogni potenzialità reddituale”.
Si considera, altresì, nullo il patto che non abbia forma scritta e che non rispetti determinati limiti di oggetto, tempo e luogo.
Inoltre, è necessario che il corrispettivo sia sempre congruo, e cioè proporzionato rispetto ai vincoli imposti al lavoratore. Tale congruità va stabilita in base all’ammontare della retribuzione, all’estensione territoriale, temporale ed oggettiva del divieto di concorrenza ed al grado di professionalità del dipendente.
In tema di congruità del corrispettivo, in data 1° marzo 2021, la Corte di Cassazione con ordinanza n. 5540 ha dichiarato che la nullità del patto di non concorrenza per violazione dei requisiti generali di possibilità, liceità, determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto di cui all’art. 1346 c.c., e la nullità per manifesta iniquità o non proporzionalità ex art. 2125 c.c. operano su piani giuridicamente distinti.
Il patto di non concorrenza ex art. 2596 c.c.
L’art. 2596 c.c. introduce la disciplina relativa al patto di non concorrenza da applicarsi, invece, nel caso in cui il rapporto che lega i due soggetti che decidono di stipularlo non è un rapporto di lavoro subordinato.
Nello specifico “il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni.
Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio”.
Si manifesta una violazione della norma laddove uno dei due obbligati intraprenda un’attività economica che, se svolta nello stesso ambito lavorativo dell’altro soggetto, possa risultare idonea a rivolgersi ai clienti di quest’ultimo.
Anche in tal caso, il patto di non concorrenza ha dei limiti di forma, territoriali, contenutistici e temporali.
Tuttavia, a differenza di quanto previsto dall’art. 2125 c.c., non è previsto alcun obbligo di corrispondere una somma di denaro a favore di colui il quale si sottoponga convenzionalmente a limitazioni concorrenziali.
È nullo, in quanto contrario agli artt. 4 e 35 Cost sul diritto al lavoro e la tutela del lavoro, nonché all’art. 41 Cost, il patto di non concorrenza diretto a precludere in assoluto ad una parte di impiegare la propria capacità professionale nel settore economico di riferimento.
Il patto di non concorrenza per il contratto di agenzia
Alla clausola del contratto di agenzia tramite la quale si limita lo svolgimento dell’attività dell’agente per il tempo successivo alla cessazione del contratto non è applicabile l’art. 2125 c.c. – non essendo il rapporto di agenzia inquadrabile nell’ambito dei rapporti di lavoro subordinato –, bensì l’art. 2596 c.c. in quanto l’agente, assumendo il rischio della propria attività, opera come imprenditore.
- Posted by MepLaw
- On 25 Maggio 2021