GLI SCAMBI COMMERCIALI TRA EUROPA E REGNO UNITO
Migliaia di aziende europee potrebbero avere bisogno di costituire una filiale nel Regno Unito
Come è noto, il 31 dicembre 2020 terminerà il periodo di transizione che porterà, in assenza di un accordo sugli scambi tra Regno Unito e Unione Europea (c.d.“free-trade deal”) oppure in assenza di una proroga del periodo di transizione, alla definitiva uscita del Regno Unito dal Mercato Unico Europeo e dall’Unione doganale europea con conseguente applicazione delle regole WTO (Word Trade Organization) agli scambi tra Unione Europa e Regno Unito.
In termini pratici e soprattutto dal punto di vista di importatori ed esportatori, ciò comporterà che lo scambio di beni tra imprese inglesi ed europee non sarà più libero e senza costi come avviene adesso, bensì gravato da costi aggiuntivi che si riverseranno a cascata, con ogni probabilità, sui consumatori finali. Questi costi aggiuntivi consistono non solo in nuove tariffe e nuovi dazi doganali, come diretta conseguenza dell’applicazione delle norme WTO, ma anche nelle cosiddette barriere non tariffarie. Si pensi ad esempio a tutti i costi ulteriori legati a pratiche di compliance, misure sanitarie e fitosanitarie a tutela della salute e dell’ambiente, regole di etichettatura e packaging, standard tecnici di produzione.
Regno Unito ed Unione Europa stanno da tempo negoziando un accordo che regoli, a partire da gennaio 2021, gli scambi di beni e servizi riproponendo così – almeno anche solo parzialmente – una sorta di mercato unico ed unione doganale. Tuttavia, a pochi mesi dalla scadenza del periodo di transizione, lo scenario “no-deal” sembra senza dubbio quello più realistico.
Il no-deal in numeri
Secondo Oxford Economics, tali costi ulteriori potrebbero condurre ad un declino significativo degli scambi tra Europa e Regno Unito. Più nel dettaglio, la diminuzione di esportazioni verso l’Europa costerebbe al Regno Unito oltre 17 miliardi di sterline all’anno, che ripartito tra i principali quattro settori manifatturieri corrisponderebbe ad una diminuzione del valore delle esportazioni annue del 22.1% per il comparto automobilistico, 14.4% per quello delle tecnologie, 9.7% per quello sanitario ed infine 24.2% per quello dei beni di consumo. Andrebbe meglio invece all’Europa, il cui valore delle esportazioni verso il Regno Unito per i citati settori oscillerebbe tra il 2% ed il 7.3%.
Non bisogna tuttavia dimenticare, come sottolineano i rapporti Eurostat che il Regno Unito rappresenta per l’Europa il secondo maggiore mercato di riferimento per esportazioni di beni dopo gli Stati Uniti ed in caso di no-deal molti stati membri sarebbero gravemente danneggiati. È il caso della Germania e della Francia ad esempio, rispettivamente per ciò che attiene al settore automobilistico e vinicolo. Ma non solo, per agricoltori e fioricoltori olandesi il Regno Unito rappresenta un terzo del volume delle esportazioni mentre la Danimarca, prevede un calo di circa un quarto delle esportazioni complessive di prodotti agroalimentari. Per quanto riguarda l’Italia, a fare da traino all’esportazioni verso il Regno Unito (che vale complessivamente secondo Istat oltre 20 miliardi di Euro di volume di affari annuo) sono i settori della moda, dell’alimentare e della filiera automobilistica. Verosimilmente saranno questi i settori del made in Italy più colpiti dalla cosiddetta hard-brexit.
Con il no-deal alle porte, imprese europee ed inglesi devono fare conti su come gestire, a partire da gennaio 2021, le esportazioni dei loro beni al di là del Canale della Manica, affrontando ulteriori costi e rischi legati alle nuove pratiche doganali.
Alcune imprese potrebbero decidere di affidarsi a distributori ufficiali, a caro prezzo, che assicurino l’importazione dei beni, il rispetto delle nuove pratiche doganali e tutta la compliance in generale. In alternativa, le imprese esportatrici potrebbero, data la complessità di alcuni settori merceologici e di alcuni prodotti, scegliere di avere un punto di riferimento oltre manica, a “door to knock on” e quindi aprire una sede o comunque stabilire una presenza munita di risorse tecniche e personale qualificato in grado di gestire le pratiche di importazione ed assicurare senza discontinuità il flusso delle merci esportate.
In questa ottica, il governo inglese ha introdotto un sistema di sovvenzioni per sostenere le aziende in questo delicato passaggio mettendo a disposizione fondi destinati alla formazione del personale addetto alle dichiarazioni doganali. I finanziamenti sono destinati, fino ad esaurimento, ad aziende con sede oppure filiale nel Regno Unito e prevedono il rimborso fino al 100% del costo sostenuto dall’impresa per la formazione in ambito doganale fino ad un massimo di £ 1,500 per dipendente.
Lorenzo Macchi
- Posted by Lorenzo Macchi
- On 29 Ottobre 2020