EXPAT USA E RESPONSABILITA’ FISCALE
A seguito della riapertura delle frontiere internazionali post-lockdown, stiamo assistendo ad una rinnovata crescita della mobilità estera dei cittadini italiani, all’interno di un fenomeno di globalizzazione che ne interessa sia la sfera privata, che professionale, da oltre 30 anni.
Nel 2021, oltre 300,000 cittadini italiani risiedevano negli USA ed in fase pre-pandemica, gli Stati Uniti davano il benvenuto ogni anno ad oltre 1,000,000 di visitatori dal Bel Paese. Molteplici sono le motivazioni che trainano la relocation ed il turismo non ricreativo verso gli Stati Uniti: dal lavoro all’investimento, dalla formazione accademica al ricongiungimento familiare.
In molti casi, tuttavia, gli expat in America presentano un denominatore comune: il mantenimento di legami più o meno solidi con l’Italia, anche diversi dalla famiglia, quali, ad esempio: proprietà immobiliari, attività imprenditoriali, rapporti commerciali, partecipazioni societarie, rapporti bancari e titoli finanziari.
L’esistenza di tali legami è tuttavia un fattore talvolta trascurato dai connazionali oltreoceano, che rischia di esporli ad una delicata questione di natura fiscale, ovvero la responsabilità dichiarativa e contributiva derivante dalla determinazione della residenza fiscale, che può coinvolgere, a livello impositivo, sia l’Italia, che gli Stati Uniti d’America.
Guardando all’Italia, uno degli elementi fondanti a determinazione della residenza all’estero viene rappresentato dall’iscrizione degli expat all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (A.I.R.E.). Ai sensi della L. 470/1988, l’iscrizione a tale registro è infatti obbligatoria per i cittadini che trasferiscano la propria residenza fuori dal territorio nazionale per periodi superiori ai 12 mesi.
Nonostante, in passato, da tale adempimento quasi conseguisse una presunzione assoluta dello status di non residenza, al fine di contrastare comportamenti elusivi sempre più comuni, come riaffermato dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate 304E/1997 e più di recente della Cassazione (5385/2012) e della C.T.R. del Piemonte (574/2017), l’iscrizione A.I.R.E. può non essere più considerata condizione sufficiente a comprova della residenza estera del contribuente.
Se da un lato, questa valutazione può permettere maggiore flessibilità per coloro che, in buona fede, non abbiano adempiuto alla puntuale registrazione A.I.R.E., essa tuttavia espone i connazionali oltreoceano a degli accertamenti più approfonditi, che richiedono un maggior numero di evidenze a supporto dello status di non residente. Il contribuente dovrà infatti dimostrare di mantenere all’estero sia il proprio domicilio civile, cioè la sede principale dei propri affari ed interessi, sia la residenza civile, ovvero la dimora abituale, per la maggior parte del periodo d’imposta, pari a 183 giorni nell’anno solare.
Per l’Italia, il rispetto di tali condizioni determina, in linea generale ed in assenza di ulteriori legami, il venir meno degli obblighi dichiarativi da parte dell’interessato. Ad esempio, nel caso di un cittadino italiano residente permanente (green card holder o LPR) negli USA, o che ivi vi permanga per oltre 183 giorni, il contribuente sarà soggetto alla dichiarazione di tutti i redditi mondiali all’Internal Revenue Service (IRS), mentre sarà soggetto alla dichiarazione all’Agenzia delle Entrate dei soli eventuali redditi prodotti in Italia.
Diversamente, un soggetto con un visto non immigrante negli USA, che ivi vi permanga per meno di 183 giorni all’anno, oppure un residente in Italia senza titolo immigratorio negli Stati Uniti, che tuttavia percepisca dei redditi da proprietà immobiliari, partecipazioni o interessi su prodotti finanziari oltreoceano, sarà soggetto ad obblighi dichiarativi negli USA per i redditi prodotti nel territorio, dovendo invece riportare tutti i propri redditi mondiali all’Agenzia delle Entrate italiana.
In taluni casi, si può essere tuttavia considerati fiscalmente residenti sia in Italia, che negli Stati Uniti d’America. Tale fattispecie si può configurare, ad esempio, nel caso di trasferimenti della residenza all’estero di durata compresa tra i 6 ed i 12 mesi, ovvero per la differente determinazione di residenza fiscale da parte dei due Paesi, soggetta alle singole normative vigenti, che possono differire sia per metodo, che per modalità di applicazione.
Negli Stati Uniti d’America, ad esempio, i criteri principali riguardano lo status immigratorio (cittadino, residente permanente o alien), e la presenza effettiva sul territorio, attraverso il calcolo ponderato nel corso dei tre anni solari precedenti (l’Italia, invece, considera la maggior parte del singolo periodo d’imposta). Da tali criteri ne consegue il fatto che il contribuente possa essere soggetto, totalmente o parzialmente, all’imposizione sui redditi in due diversi territori, sulla base di un identico presupposto ed in riferimento al medesimo periodo d’imposta, la c.d. “doppia imposizione”.
Sebbene nel 2009, il governo italiano e quello americano abbiano ratificato una Convenzione contro la doppia imposizione, essa tuttavia non deroga quanto previsto dai singoli stati in merito alla definizione dello status di residente fiscale, ma si propone, in forza alle linee guida OCSE, di individuare degli indici di riferimento, affinché solo uno dei due Paesi possa applicare il principio di tassazione a livello mondiale e delle misure risolutive sotto forma di esenzione del reddito di fonte estera, ovvero di riconoscimento di un credito d’imposta.
Questi criteri, definiti tie break rules, sono rilevanti in quanto similari a quelli previsti per la determinazione della residenza fiscale italiana da parte dell’Agenzia delle Entrate. Ove il principio di iscrizione anagrafica e di territorialità non fossero sufficienti, verranno infatti valutati altri fattori quali, l’abitazione permanente, i legami economici, le relazioni familiari, il soggiorno abituale e la nazionalità. In taluni casi, altri elementi possono essere considerati, quali il possesso di beni, anche mobiliari, eventuali cariche sociali, l’organizzazione dell’attività e degli impegni, anche internazionali, direttamente o indirettamente attraverso soggetti operanti in un territorio.
Da ciò si può dedurre come in alcuni casi, la valutazione della responsabilità dell’expat alla luce dei principi di fiscalità internazionale possa essere complessa e caratterizzata dalla presenza di diverse “aree grigie”, nonché da una serie di obblighi, deroghe ed eccezioni che possono differire caso per caso. Considerando le pesanti sanzioni, nonché i profili di rischio sia civilistico, che penalistico, la migliore strategia è sicuramente quella dell’analisi preventiva, più che riparativa, affidandosi a dei professionisti in fiscalità internazionale che possano accompagnare efficacemente i contribuenti nel loro percorso su entrambi i fronti dell’Atlantico.
Luca Marco Giraldin
- Posted by Luca Marco Giraldin
- On 16 Dicembre 2022