Investigazioni difensive e giusto processo
Fra i tanti nodi irrisolti del processo penale vi è quello cruciale del rapporto tra efficienza e garanzie: si tratta di un binomio che sottolinea la necessità di rendere compatibili fra loro i termini dai quali è formato, nel senso che la relativa composizione va rinvenuta in una concreta sua articolazione di modo che il giudizio dai tempi spediti non sacrifichi le garanzie inerenti al diritto di difesa e ad altri principi che meritano una tutela privilegiata.
Queste problematiche affioravano ancor prima del varo del D. P. R. 22 settembre 1988, n. 447 di approvazione del codice di procedura penale; si pensi alle riflessioni di un insigne Maestro delle scienze penalistiche, Giuliano Vassalli, che esprimeva non poche perplessità sulla nuova normativa, la quale, come soleva ricordare spesso, recava la sua firma e quindi il suo nome soltanto per la contingenza di essere all’epoca il Ministro di Grazia e Giustizia. Le critiche si appuntavano non unicamente sulla struttura di quel codice quanto piuttosto sulla organizzazione interna dei vari istituti che lo contrassegnavano e soprattutto, per ciò che qui rileva, sul predominante ruolo rivestito dal pubblico ministero nei confronti della attività del difensore dell’indagato, collocato, rispetto all’accusa, in una non ammissibile posizione di “minorità”.
E ad analoghe conclusioni perveniva in diverse circostanze Giovanni Conso, il quale nell’indicarne le criticità, osservava come la figura della difesa risultasse “soffocata” dai preponderanti poteri attribuiti al pubblico ministero ed invitava a meditare sulla inadeguatezza delle risorse anche economiche, destinate alla organizzazione degli uffici giudiziari ed indispensabili per rendere spedito l’iter dei giudizi penali e funzionante il servizio giustizia.
Queste censure ed altre simili, riguardanti l’intero sistema processuale, portarono nel tempo a dover vedere soddisfatta la avvertita esigenza di riformulare l’art 111 della Costituzione che si concretizzava soltanto nel crinale fra vecchio e nuovo millennio; veniva così introdotto nel suo primo comma il principio del “giusto processo regolato dalla legge”, e nel successivo il canone che esso si deve svolgere “nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità”, stabilendo poi, dopo aver dettato nel terzo comma il catalogo dei diritti spettanti all’imputato, in quello seguente, con specifico riferimento al processo penale e limitatamente all’argomento in discorso, che deve essere osservato il “contraddittorio nella formazione della prova” onde garantire pienamente il “diritto inviolabile” di difesa “in ogni stato e grado del procedimento”, sancito dall’art. 24 comma secondo della stessa Costituzione.
Si è, quindi, reso necessario abrogare la mortificante previsione di cui all’art. 38 delle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale ( D. lgs. 28 luglio 1989, n. 271 ), la rubrica del quale significativamente faceva espresso riferimento alla “facoltà dei difensori per l’esercizio del diritto alla prova” ( situazione non migliorata dalle interpolazioni dei commi 2 bis e 2 ter introdotti dalla legge 8 agosto 1995, n. 322 ), ed inserire nel libro quinto del codice di procedura penale, ad opera dell’art. 11 comma primo della legge 7 dicembre 2000, n. 397, un apposito titolo VI bis, dedicato alle “investigazioni difensive, e nel suo titolo I fra le disposizioni generali l’art.327 bis , dedicato alla attività investigativa del difensore.
La nuova trama normativa del codice di procedura penale si prefigge lo scopo di porre riparo ad un intollerabile sbilanciamento tra accusa e difesa in favore della prima, soprattutto in relazione ad un momento determinante della vicenda giudiziaria qual è il diritto alla prova, cioè a quegli strumenti attraverso cui esercitarlo in concreto.
A fronte di tali importanti mutamenti normativi, l’attenzione deve appuntarsi in primo luogo sull’art. 327 bis del codice di procedura penale, che, anche per la sua collocazione topografica, rappresenta emblematicamente la carta di identità della attività investigativa del difensore; questa generale previsione è stata, infatti, inserita in posizione speculare rispetto agli artt. 326 e 327 dello stesso codice, che rispettivamente indicano le finalità delle indagini preliminari e ne attribuiscono la direzione al pubblico ministero, ed è, quindi, già di per sé assai significativa; ma la portata innovativa della riforma è svilita dal tenore letterale della parte conclusiva del primo comma del menzionato art. 327 bis cod. proc. pen., dove è scritto che l’attività investigativa del difensore “per ricercare ed individuare elementi di prova” è consentita “nelle forme e per le finalità stabilite nel titolo VI bis del presente libro”, sicché la auspicata par condicio tra la suddetta attività e le investigazioni degli organi pubblici non risponde ai reali contenuti del sistema dalla cui lettura affiora invece un perdurante notevole distacco tra l’una e le altre ( si pensi, ad esempio, al potere temporalmente limitato di segretazione del pubblico ministero ai sensi dell’art. 391 quinquies cod. proc. pen., consistente nel vietare alle persone sentite di comunicare i fatti e le circostanze oggetto delle indagini delle quali hanno conoscenza ).
Da questo primo approccio in tema di indagini difensive si comprende agevolmente che il dominus delle attività contemplate dall’art. 327 bis del codice di procedura penale è il difensore dell’imputato o dell’ indagato, della parte civile, del civilmente obbligato per la pena pecuniaria, della persona offesa, degli enti esponenziali e del danneggiato dal reato, e che il suo ruolo con i relativi interventi varia in stretta correlazione con la posizione che assume nella vicenda giudiziaria in cui è chiamato ad intervenire a sostegno dei diritti di uno dei suddetti soggetti. Quelle indagini sono pure prive del carattere di necessità e sono svincolate dal requisito della completezza, elementi che invece tipicizzano le indagini del pubblico ministero, ed il loro indiscusso protagonista, cioè l’avvocato, non è dotato dei poteri coercitivi di cui gode invece l’organo pubblico e si deve limitare, nella autonomia che gli compete al riguardo, a ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito, anche se possono orientarsi pure verso una ipotesi accusatoria riguardante altre persone.
Una interpretazione sistematica del complesso delle disposizioni contenute nel citato titolo VI bis e l’analisi delle rigorose formalità descritte per un corretto svolgimento delle varie attività investigative del difensore, soprattutto per quanto concerne la documentazione delle dichiarazioni e delle informazioni ( art. 391 ter cod. proc. pen. ) fanno emergere che gli elementi di prova da lui raccolti sono pienamente equiparabili, quanto ad utilizzabilità e forza probatoria, a quelli del pubblico ministero e, pertanto, il giudice al quale siano stati direttamente presentati con apposito fascicolo ai sensi dell’art. 391 octies cod. proc. pen. non può limitarsi ad acquisirli, ma è tenuto, come ha osservato la giurisprudenza del Supremo Collegio, a valutarli unitamente a tutte le altre risultanze del procedimento, spiegando, ove ritenga di disattenderli, le relative ragioni con un adeguato apparato argomentativo.
L’insofferenza dei giudici del merito nei confronti delle indagini difensive svolte dal difensore a tutela del suo assistito, talora ritenute un espediente meramente dilatorio, sono testimoniate da non poche pronunce della Corte di Cassazione che hanno stroncato un tale censurabile orientamento, ispirato ad un gretto formalismo, quando, ad esempio, si è stabilito, nel ribadire ancora una volta come l’atto steso dal difensore in sede di indagini ha la stessa natura e gli stessi effetti processuali del corrispondente atto formato dal pubblico ministero, che quell’atto può ritenersi nullo soltanto se vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione dell’avvocato o del suo sostituto che lo ha redatto, e non anche quando l’informatore dichiarante non ha sottoscritto l’atto foglio per foglio, e ciò in ossequio al principio enunciato dall’art. 142 cod. proc. pen., che prevede la nullità del verbale ( anche di quello del pubblico ministero ) appunto unicamente quando “ vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha redatto”.
L’ingresso nell’ordinamento processualpenalistico dell’istituto delle investigazioni del difensore con le sue varie complesse articolazioni descritte dal codice di rito nel citato titolo VI bis del libro quinto non soltanto ha ridimensionato il ruolo del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari di cui conserva la direzione ai sensi dell’art. 327 bis cod. proc. pen., ma ha determinato altresì una modificazione dei rapporti tra difensore ed assistito, il quale è in grado di fornire nel suo esclusivo interesse precise informazioni a chi deve assicurargli una ottima difesa tecnica, per il cui esaustivo espletamento interviene l’ultimo comma di tale norma.
E’ infatti previsto a questo scopo che le attività investigative possono essere svolte su incarico del difensore, per il tramite di un mandato ad hoc, anche da investigatori privati autorizzati e da consulenti tecnici quando siano necessarie specifiche competenze per portare a conoscenza del giudice saperi a lui non conosciuti: si pensi, ad esempio, alla veicolazione nel processo penale delle acquisizioni neurotecnoscientifiche ed alla lettura della attività dei neuroni preposti alla pianificazione delle azioni umane, nonché alla individuazione di un libero arbitrio neuro-scientifico, profili che investono specialmente il magmatico terreno della imputabilità penale.
Il nuovo testo dell’art. 111 Cost. rivela nella sua stesura incentrata prevalentemente sul processo penale tutta la complessità della tradizione europea, cui si è aggiunta posticcia l’esperienza americana degli ultimi due secoli: il vigente codice di procedura penale con gli inserimenti a cascata di continue modifiche non è riuscito però a vincere un male endemico del sistema giustizia italiano, caratterizzato da una esasperante lunghezza, talvolta ed a torto addebitata alla presenza ritenuta ingombrante dell’avvocato, il cui ruolo ( che dovrebbe avere una sua esplicita consacrazione formale nella Carta fondamentale ) determinante in un ordinamento democratico, è stato più volte sottolineato con vigore da Piero Calamandrei, che partecipò dal 1924 alla riforma del codice di procedura penale.
Per ovviare a tale stato di cose ed abbreviare la durata dei processi ( i cui parametri temporali sono stati già fissati dall’art. 2 comma secondo della legge 24 marzo 2001, n. 89, la cui violazione comporta per l’interessato una riparazione pecuniaria di tutti i danni subiti ), assediati da carenze istituzionali e dalle logiche frammentarie dell’emergenza con relative novelle succedutesi a cascata, si è sostenuta da un canto la necessità di rivisitare il sistema delle impugnazioni, che sarebbe inutilmente orientato ad un ripetuto esame di merito, dall’altro, secondo una indecente proposta, formulata con spocchiosa arroganza, a sanzionare pecuniariamente il difensore che propone nell’interesse del proprio assistito gravami poi dichiarati inammissibili, con introduzione di una responsabilità di funzione che tra l’altro non ne troverebbe una analoga per il pubblico ministero impugnante a fronte di una continua esaltazione della sua posizione istituzionale.
Ben altre devono essere invece le riforme da attuare perché si possano avere processi dalla “ragionevole durata” ( formula mutuata dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che reca la rubrica “Diritto ad un equo processo” e da altri patti internazionali come, ad esempio, la c.d. Carta di Nizza – CDFUE – ) ed affinché nelle aule di giustizia si giudichi di un fatto nella sua imminenza e non della storia di un fatto, come accadrà dopo la recente riforma dell’istituto della prescrizione segno di una intollerabile inciviltà giuridica e sociale. L’obiettivo preminente del processo penale in specie consiste nel realizzare una giustizia pronta che nel più breve tempo possibile giunga a condannare i colpevoli e ad assolvere gli innocenti, un processo “breve” che realizzi in concreto un punto di equilibrio tra una giustizia ragionevolmente celere, le garanzie di difesa dell’imputato e l’efficacia dell’azione penale. Al riguardo pare opportuno rammentare quanto sul tema dovrebbe insegnare il conclusivo ammonimento beccariano; “ perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino dev’essere ( … ) pronta” ed inoltre “più vicina al delitto commesso”: unicamente così “ella sarà tanto più giusta e più utile”. Il nobile marchese di Bonesana, sulla scia dell’insegnamento verriano, sostiene a ragione che la prontezza della pena è più utile perché quanto è minore la distanza del tempo che trascorre tra la pena ed il misfatto “tanto più forte e più durevole sarà nell’animo umano l’associazione di queste due idee: delitto e pena, talché insensibilmente si considerano uno come cagione, e l’altra come effetto necessario immancabile. Il lungo ritardo tra il primo e la seconda “non produce altro effetto, che di sempre più distinguere queste due idee; e quantunque faccia impressione il castigo di un delitto, la fa meno come castigo che come spettacolo”. Affermazioni incontestabili anche alla luce dell’art. 27 comma terzo della Costituzione; già, ma forse serpeggia tra i nostri incolti legislatori l’interrogativo mutatis mutandis di manzoniana memoria che pronuncia il curato Don Abbondio: Beccaria, chi era costui?
Avv. Prof. Francesco Mazza
- Posted by Francesco Mazza
- On 16 Marzo 2020