Il Third Party Litigation Funding
Il Third Party Litigation Funding (TPLF) – più brevemente Litigation Funding – è strumento giuridico in forte espansione nel panorama legale europeo.
Derivato storicamente dall’esperienza giuridica anglosassone, il TPLF si può ricondurre alla più ampia categoria afferente al c.d. “legal financing”, ossia quel complesso di strumenti e meccanismi negoziali che diversi operatori economici (società, fondi d’investimento o entità ad essi assimilabili) offrono a soggetti i quali, avendo risorse economiche limitate ovvero insufficienti per una controversia particolarmente onerosa, siano reticenti ad intraprendere un’azione legale.
Inquadrando giuridicamente il fenomeno, il Third Party Litigation Funding consisterebbe in un contratto atipico, stipulato da un lato da un soggetto che ha interesse e legittimazione ad intraprendere un’azione legale e dall’altro da un finanziatore esterno, detto “funder”.
Lo schema negoziale è il seguente: il funder si obbliga a sostenere i costi del contenzioso, dai compensi professionali alle spese “tecniche” del giudizio, assumendosi, normalmente, anche il rischio dell’eventuale soccombenza; come controprestazione, il soggetto finanziato si impegna a corrispondere una percentuale, individuata ante causam, del credito ottenuto in caso di successo.
La ragion d’essere storicamente attribuita al legal financing, come si accennava in precedenza, è la possibilità di rendere accessibile la tutela giudiziaria a chiunque, anche laddove essa risulti particolarmente onerosa. Il litigation funding è stato strumento sotteso a numerosi e storici contenziosi in materie caratterizzate da elevata complessità intrinseca: in particolare, il TPLF ha sostenuto procedimenti giudiziali in materia di antitrust, concorrenza, consumatori (prettamente in forma di class actions) e brevettuale, tutti settori connotati da una elevata complessità tecnica e, conseguentemente, elevati costi, difficilmente sostenibili senza un massiccio e strutturato supporto economico.
Elementi critici
Accanto a tale innegabile vantaggio dello strumento, la dottrina ha tuttavia messo in luce anche elementi critici. Come detto, il Third party litigation funding si rivolge prettamente a giudizi d’alto profilo e, proprio per questo, la maggior parte degli operatori offerenti servizi di litigation financing prevedono delle soglie minime per accedere alla negoziazione dello strumento, solitamente nella misura di svariati milioni per valore di causa e/o eventuale risarcimento prevedibile. Generalmente, l’opportunità e la rispondenza a detti requisiti d’accesso sono vagliati con attività preliminari di due diligence, al termine delle quali, in caso di “green light”, viene formulata la proposta di conclusione del contratto di TPLF al legittimato all’azione giudiziale. I commentatori più attenti, se da un lato rinvengono quale esito meritevole di tali analisi preliminari l’effettiva attivazione del complesso giudiziario solamente in caso di contenziosi sostenibili e con realistica chance di successo, allo stesso tempo hanno sollevato dei dubbi in merito alla rispondenza del litigation funding alle norme sostanziali, processuali e deontologiche. Superata – entro certi limiti – la più risalente critica in merito all’aggiramento del divieto del patto di quota lite, si continua a rilevare un profilo problematico rispetto al conflitto d’interesse. In riguardo, è stato detto che il rischio sarebbe disinnescato dalla assoluta coincidenza di interesse fra funder e finanziato, entrambi intenzionati ad un contenzioso vittorioso, pur se per motivazioni differenti. Non può non notarsi, tuttavia, che banalizzare tale interesse al solo contenzioso sinergicamente vittorioso parrebbe semplicistico: ricordando infatti che lo strumento giuridico di cui si discorre trova naturale utilizzo in contenziosi di primissimo piano, i quali sono in grado di poter influenzare il mercato di un determinato settore commerciale per un lungo periodo a seguire, sussistono dei rischi inerenti al naturale procedere della giustizia. Con particolare riferimento ad ordinamenti nei quale vige lo stare decisis, la possibilità di favorire un certo filone di contenzioso rispetto ad un altro, con l’instaurazione di giudizi seriali, potrebbe astrattamente permettere la creazione di precedenti giurisprudenziali di comodo, evenienza tutt’altro che peregrina nel persistente panorama di c.d. “sham litigation” transfrontaliero, stortura che sempre ha albergato nelle more dei giudizi della materia concorrenziale e di contenzioso brevettuale.
Altro aspetto controverso è quello che si verificherebbe nell’ eventualità per la quale il finanziamento non ricomprenda la copertura delle spese anche in caso di soccombenza. In questo caso, il convenuto vittorioso potrebbe trovarsi dinanzi alla totale incapienza di parte attrice, con evidenti distorsioni alla naturale attribuzione delle spese di lite alla parte soccombente. Al fine di evitare tale situazione, la dottrina, come le singole associazioni di arbitrato, ha suggerito di prevedere l’obbligo di disclosure da parte del funder. Per rendere funzionale tale sistema, tuttavia, sarebbe necessaria non solo la discolsure preventiva della presenza del funder nella fase antecedente alla pendenza della controversia, ma anche l’obbligo di deposito del contratto di litigation funding, al fine di garantire la solvibilità finale e scongiurare utilizzi fraudolenti dello strumento.
La normativa e le iniziative del legislatore
Allo stato attuale, in Italia manca una normativa specifica sul litigation funding, fattore che degrada notevolmente l’attrattività del mercato italiano per i fondi d’investimento, senza considerare l’intrinseca ambiguità del nostro contenzioso in termini di apprezzabilità economica. Se da un lato, infatti, sussiste un alto tasso di litigiosità, elemento favorevole, dall’altro spiccano diversi dati avversi: un basso valore medio delle cause, il risibile numero di class actions nonché la lentezza dei procedimenti giudiziari, fattore che frustra l’elemento di prevedibilità per quello che, effettivamente, è un vero e proprio investimento. Di conseguenza, i possibili funder rimangono, allo stato attuale, attratti dai soli arbitrati, in virtù della misurabilità delle tempistiche della lite.
Fra le ancora scarse trattazioni sul Third Party Litigation Funding da parte di enti istituzionali, possiamo annoverare una interessante risposta ad interpello da parte dell’Agenzia delle Entrate (n. 83/2024, 28 marzo 2024). In tale documento, l’Agenzia ha stabilito univocamente che le prestazioni di servizio inerenti al litigation funding hanno natura finanziaria e, ove territorialmente rilevanti in Italia, sono esenti ex art. 10, c. 1, n. 1, del Testo Unico IVA e che, di conseguenza, è da applicarsi l’art. 22 del medesimo Testo, secondo il quale l’emissione della fattura non risulta obbligatoria se non è richiesta dal cliente sino al momento di realizzazione dell’operazione.
La giurisprudenza italiana
Ulteriori indicazioni utili in tema di litigation funding sono da rinvenirsi nella recentissima giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione. In specie, il giudice di legittimità è stato chiamato a pronunciarsi in merito alla validità della cessione del credito litigioso pur in assenza di iscrizione del cessionario all’albo ex art. 106 del Testo Unico Bancario (d. lgs. 1 settembre 1993, n. 385). Al di là della questione nel merito, il principio di diritto risultante dalla ordinanza (n. 7375 del 19/03/2024) è che detta norma del TUB non è da applicarsi al TPLF poiché nel contratto, invero, non è presente l’erogazione di un finanziamento, presupposto per l’insorgere degli obblighi previsti dall’art. 106 TUB. Al contrario, coerentemente alla ricostruzione dottrinale, causa del contratto di litigation funding è da rinvenirsi in una mera cessione di credito a fronte della controprestazione di un servizio, del tutto atipico, offerto dal funder.
Le iniziative e gli studi dell’Unione Europea
Per quanto riguarda le proposte istituzionali comunitarie, sono da annoverarsi uno Studio del 2021 e una proposta di Direttiva Europea del 2022 per offrire una prima disciplina relativa al litigation funding. In sintesi, lo Studio parrebbe preferire un approccio ibrido, prevedendo una base di elementi normativi supportati da previsioni di soft law, consegnando agli operatori un sistema più flessibile ma ancora suscettibile a storture e sviamenti; la Proposta di Direttiva, al contrario, si rifà ad un approccio di tipo hard law, con un più stringente e completo quadro regolamentare. Più recentemente, ai fini dell’individuazione della natura del TPLF e della sua interazione con il mercato comunitario, è particolarmente interessante che il Parlamento Europeo, nella Risoluzione del 13 settembre 2022, abbia definitivamente individuato il litigation funding quale vero e proprio strumento di creazione di assets finanziari. Di tutta conseguenza, se si portasse tale interpretazione alle più estreme conseguenze, anche le varie situazioni di litigation potrebbero essere considerate un asset immateriale vero e proprio, con notevoli ricadute concrete sia per gli operatori del diritto che per gli investitori europei.
In definitiva, ci troviamo dinanzi ad un fenomeno, originato da un trapianto giuridico, che, al netto degli scetticismi e riserve più o meno fondate, sembrerebbe costituire una grande opportunità sia per gli operatori del diritto che per i fruitori della tutela e che potrebbe cambiare la fisionomia del mercato del contenzioso per come lo abbiamo conosciuto, settore legale tradizionalmente meno avvezzo alle oscillazioni del mercato vivo.
- Posted by Fabio Colaiori
- On 21 Giugno 2024